I pensatori di Mileto

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Come abbiamo già visto ciò che in seguito venne indicata come «filo-sofia», ossia «ricerca della sapienza», apparve in due zone distinte dell’Ellade:

  • la regione abitata dagli Ioni, ossia la costa occidentale dell’attuale Turchia, affacciata sul mare Egeo,
  • la regione chiamata Megas Ellas, la «Magna Grecia» dei romani, ossia l’Italia meridionale.


Non è senza importanza il fatto che si cominci a sentire la necessità di «qualcosa di nuovo» (ossia, in questo caso, un nuovo modo di in­terpretare il mondo e la vita) nelle zone di frontiera: qui infatti i contatti con altre visioni del mondo sono più frequenti e intense, e la possibilità di confrontarsi con esse molto maggiore.

Tradizionalmente una certa priorità viene riconosciuta alla regione degli Ioni, dove tra la fine del VII secolo e gli inizi del VI secolo a.C. vivono i primi uomini collegati alla «ricerca della sapienza».

Non dobbiamo attenderci sorprendenti rivelazioni o sistemi com­plessi: stiamo osservando il passaggio dalla fase in cui il pensiero elabora la sua visione del mondo in forma mitica e simbolica a quella in cui compare l’esigenza di una spiegazione «razionale» ed è ragionevole ipotizzare che la trasformazione sia stata graduale.

I primi tre uomini che la tradizione collega alla filosofia sono origi­nari di una importante città della Ionia: Mileto, una città ricca e po­tente sulla costa che nel VI secolo rappresentava uno dei centri più ricchi dell’Ellade. [vai qui per saperne di più su Mileto]

Essi vengono riuniti dalla tradizione in una «scuo­la», detta scuola ionica o milesia, ma in realtà questi filosofi si susseguono a distanza di parecchi anni gli uni dagli anni: i rapporti tra di loro sono probabili ma non documentati con certezza.

Talete
Una tradizione maggioritaria, ma non esclusiva, indica in Talete il primo filosofo.

Perché Talete è importante?

L’importanza di questo filosofo consiste nell’aver posto il problema del senso della realtà in chiave filosofica (e non più mitica) e di aver dato una soluzione di ordine razionale, basandosi essenzialmente su ragionamenti per analogia.

Cosa sappiamo sul pensiero di Talete?

Talete appartiene ancora in pieno alla fase orale della cultura, e non pare che abbia scritto nulla. Il suo insegnamento quindi è stato tra­mandato per qualche generazione prima di essere fissato in qualche modo. Dalle scarsissime testimonianze che possediamo, sembra che l’intuizione fondamentale fosse che «tutto è pieno di dei», ossia che il mondo è abitato da una forza vitale. Forse il punto di partenza per questa intuizione era rappresentato da osservazioni empiriche (ricordate da alcune fonti) sulla capacità della calamita di attrarre i metalli. Se è davvero così, il suo ragionamento può essere ricostrui­to in questa maniera: dato che anche gli oggetti apparentemente «morti», come le pietre, possiedono una energia in grado di far muovere altri oggetti, è necessario ammettere che tutto il mondo sia attraversato e sostenuto da una forza vitale.

Ma da dove gli arriva questa energia? Da quale sorgente scaturisce questa forza? Secondo altre fonti, Talete ammetteva che il mon­do è sostenuto e generato dall’Acqua: non l’acqua fisica e mate­riale, quella che noi beviamo tutti i giorni, ma un’Acqua diversa, in qualche modo «divina», capace appunto di far scaturire da sé ogni cosa (non a caso gli viene attribuita la teoria secondo la quale la ter­ra su cui noi viviamo galleggerebbe sull’acqua come una tavola gal­leggia sull’acqua di uno stagno).

Di per sé non si tratta di una idea particolarmente originale: molti miti cosmogonici fanno nascere il mondo dall’acqua. Quello che interessa è il modo in cui Talete fonda questa affermazione e cioè non tramite simboli come facevano i miti ma attraver­so un ragionamento per analogia:

Talete come simbolo del sapere scientifico

È interessante notare che Talete non si trova solo all’inizio della sto­ria della filosofia, ma anche all’inizio della storia della scienza (in particolare della matematica e dell’astronomia) e della tecnologia. È come se la tradizione, pur con tutte le sue incertezze, volesse incar­nare in lui la possibilità di un certo atteggiamento nei confronti del­la realtà nel suo complesso: attivo, propositivo, pratico.

Bisogna riconoscere che anche in questo caso la tradizione è incer­ta.

Nel campo dell’astronomia un passo di Erodoto gli attribuisce la previsione di una eclissi di sole nel 585 a.C.; nel campo della mate­matica le fonti gli attribuiscono le seguenti affermazioni:

  • un cerchio è diviso in due aree uguali da qualunque diametro
  • gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali
  • gli angoli opposti al vertice di un triangolo isoscele sono uguali
  • due triangoli sono uguali se hanno un lato e i due angoli adiacenti uguali
  • un triangolo iscritto in una semicirconferenza è rettangolo.

Non sappiamo però fino a che punto si trattasse di reali conoscenze di Talete e non piuttosto di attribuzioni successive. In ogni caso egli per «dimostrare» queste proposizioni può aver fatto ricorso solo a un metodo ostensivo, ossia può solo aver richiamato l’attenzione dell’ascoltatore su certe evidenze.

È importante invece il fatto che Talete applicò queste conoscen­ze teoriche per ottenere uno scopo pratico, misurando l’altezza delle piramidi di Giza, in Egitto, e costruendo uno strumento per misurare la distanza delle navi in mare. Ciò significa che almeno agli inizi la speculazione greca sulla natura non era astratta, ma finaliz­zata al controllo almeno di certi aspetti della realtà.

L’interpretazione di Aristotele

La ricostruzione del pensiero di Talete si fonda essenzialmente sulla testimonianza di Aristotele, che nel libro Alfa della Metafisica forni­sce una presentazione sintetica delle dottrine dei primi filo­sofi.

Come abbiamo già visto però la rilettura offerta da Aristotele è problematica perché egli tende a proiettare le proprie concezioni sugli autori precedenti, cercando di porre se stesso come colui che porta a compimento le intuizioni dei suoi predecessori. In ogni caso, Aristotele ricostruisce il pensiero di Talete sostenendo che egli per primo cercò «l’archè della physis»: proprio per questo merita di essere indicato come il primo dei filosofi.

Il termine archè significa letteralmente principio, mentre physis signi­fica natura e quindi la traduzione letterale sarebbe «principio della natura»; ma in realtà questa traduzione, pur corretta in se stessa, ci farebbe perdere il significato molto più profondo che le parole gre­che possiedono.

La parola physis infatti nell’epoca arcaica non indica ancora sem­plicemente la «natura» intesa come l’insieme delle cose (in filosofia si chiamano spesso «enti») naturali, come piante, animali, sassi, stel­le e così via. Questa parola indica piuttosto la totalità di tutto ciò che esiste e quindi non solo ciò che è materiale ma anche ciò che appartiene alla sfera dei sentimenti, dei pensieri, delle divinità e così via.

Non solo: la parola physis allude anche all’aspetto «dinamico» della totalità, ossia alla sua caratteristica strutturale per la quale la totalità degli enti (ossia delle cose, ma anche di tutte quelle realtà immate­riali che fanno parte della totalità) non resta sempre immobile e uguale a se stessa, ma cambia e si modifica: in una parola, diviene.

Il grande filosofo tedesco del Novecento Martin Heidegger ha rias­sunto queste caratteristiche scrivendo che la parola physis nel suo senso più antico esprime «lo schiudentesi permanente imporsi della totalità» [Heidegger, Introduzione alla metafisica].

In questa espressione appare sia la caratteristica per la quale la phy­sis deve essere intesa come la totalità di tutti gli enti esistenti, sia il fatto che le cose appaiano nell’orizzonte dell’esistenza e si imponga­no a noi.

Per il pensiero arcaico, in altre parole, la natura non è qualcosa di statico ma è un processo con il quale gli oggetti che ci circondano si rendono evidenti, manifesti, visibili e si impongono quindi alla nostra coscienza.

Il termine archè, invece, che ha la stessa radice del verbo greco archeomai, che significa «comandare») designa il «principio» e l’origi­ne di tutto ciò che esiste.

Qui la parola «principio» non va intesa in senso puramente tempo­rale, ossia come «ciò che sta all’inizio di una serie». La parola «ar­chè» indica semmai l’origine, ciò da cui il resto è scaturito e insieme è sostenuto e guidato.

Cercare l’«archè della physis» vuol quindi dire cercare quel «qualco­sa» che regge, spiega e giustifica la totalità delle cose esisten­ti.

Secondo Talete l’archè della physis è l’Acqua, non intesa come quella che si beve ma come l’Acqua divina che sarebbe l’origine di tutto.

Anassimandro
Anassimandro viene considerato un discepolo di Talete, anche se non possiamo stabilire quali fossero i veri rapporti tra i due. Secon­do la testimonianza di Aristotele egli riprese e sviluppò il problema dell’archè della physis, ma giungendo a una soluzione differente ri­spetto a quella del suo maestro.

Per lui infatti l’archè non può essere né l’acqua, né un qualsiasi altro elemento, ma deve essere qualcosa di indefinito e illimitato: solo a questa condizione l’archè può essere in grado di dare origine a tutte le cose.

Questo principio è àpeiron, una parola greca che letteralmente si­gnifica indeterminato, illimitato.

Dall’àpeiron, primordiale e indeterminata, ha origine l’intero univer­so, composto di contrari: dall’àpeiron tutte le cose nascono e in esso di nuovo si dissolvono. La totalità viene ad essere abitata in questo modo da un dualismo radicale: l’indefinito (àpeiron) e il finito (i contrari).

Il mondo concreto della nostra esperienza è formato infatti da un insieme di elementi contrari, da intendersi in modo molto semplice (caldo/freddo, notte/giorno, estate/inverno…). I contrari tendono a sopraffarsi l’un l’altro, commettendo così una «ingiustizia», come dice il frammento di Anassimandro che è arrivato fino a noi e che costituisce, tra l’altro, il primo testo «filosofico» a nostra dispo­sizione. Questa ingiustizia deve essere scontata con la morte dello stesso elemento che ha compiuto la sopraffazione.

La ragione profonda di questa lotta continua però è rappresentata da una ingiustizia ancora più profonda, che consiste nel fatto ogni singolo contrario per esistere deve staccarsi dall’àpeiron, allontanandosi dal principio che tutto regge. Per ciò il mondo, nato da questa ingiustizia originaria, non può che essere a sua volta luo­go di lotta e di ingiustizia.

I primi contrari che si sono distaccati dall’àpeiron (forse a causa di un forte movimento rotatorio di quest’ultimo, simile a quello della ruota del vasaio) sono stati secondo Anassimandro il caldo e il freddo: il primo si sarebbe disposto all’esterno, racchiudendo l’elemento freddo, il quale, essendo anche umido si sarebbe in parte asciugato diventando terra.

La tensione esistente tra i due elementi li avrebbe fatti scoppiare, producendo da una parte una serie di anelli concentrici di fiamme attorno al nucleo centrale di terra, e dall’altra una serie di strati compatti di vapore che avrebbero lasciato apparire solo da piccolis­sime aperture la luce del fuoco: queste aperture sono ciò che noi chiamiamo stelle.

Anassimene
La filosofia di Anassimene, ultimo esponente della scuola ionica per cronologia, è strettamente legata a quella dei suoi prede­cessori: Talete ed Anassimene, suo maestro. Secondo Anas­simene l’archè della physis è l’aria, indefinitamente estesa e capace di condensarsi, trasformandosi progressivamente in acqua e poi in terra (si pensi al processo di condensazione del vapore e a quello di congelamento).

L’importanza di questa intuizione, apparentemente così banale, sta nel fatto che per la prima volta viene fornita una spiegazione in qualche modo «quantitativa» della trasformazione: le cosa cambiano perché aumenta (o diminuisce) il loro grado di compressione.

Un’altra considerazione importante sta nel fatto l’aria è l’unico ele­mento che non apparentemente ha bisogno di un sostegno per esi­stere, e l’archè deve essere appunto qualcosa che esiste indipenden­temente da ogni altra cosa

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